Ghiacciai e cambiamenti climatici

Il ghiacciaio del Travignolo è arretrato di 14 metri, quello della Fradusta è calato di 140 mila metri cubi nell'ultimo anno

È quanto emerge dai rilievi eseguiti sui ghiacciai di Travignolo e di Fradusta, nel Gruppo delle Pale di San Martino. A spiegare i risultati è Gino Taufer, responsabile dell’Ufficio Tecnico del Parco Paneveggio Pale di San Martino.
L’Ente Parco, infatti, insieme al Comitato Glaciologico della SAT ha eseguito i monitoraggi anche nel corso del 2011.

Sul ghiacciaio del Travignolo sono state compiute delle misure frontali da dei punti fissi, per verificare la posizione della fronte principale dell’apparato.
Si è registrato un arretramento della fronte tra i 10 e i 14 m rispetto all’anno precedente, quindi un vero “salto all’indietro”. Si sono poi visti tutti i segnali di “sofferenza” del ghiacciaio, con l’emersione di ghiaccio sepolto dal detrito, anche a quota notevolmente inferiore alla fronte visibile. Anche la neve vecchia si è “ritirata”, soprattutto nei mesi di settembre e ottobre, ad una quota molto alta (circa 2713 m slm), lasciando la superficie di ghiaccio, esposta all’ablazione e quindi alla fusione di ghiaccio. Il Travignolo ha la “fortuna” di trovarsi in una posizione ideale, esposto quasi perfettamente a nord, protetto dalle alte pareti della Vezzana e del Cimon della Pala, alimentato dalle valanghe e dalla neve accumulata sulle pareti circostanti, protetto dall’azione eolica, tutti fattori che hanno determinato una migliore conservazione della massa di ghiaccio.

Per quanto riguarda il ghiacciaio della Fradusta, nel 2011 siamo al tredicesimo anno di rilievo di dettaglio, una volta l’apparato più esteso del Gruppo Pale di San Martino, sorpassato da qualche anno dal Travignolo.
Fradusta aveva una superficie cartografata a fine Ottocento di 225 ettari. Ora di ettari ne rimangono 7,3, contando anche i 3,6 della parte bassa che non sono più considerabili ghiacciaio. Ma questi dati sono noti da tempo e, seppur impressionanti, non sbalordiscono più di tanto. Invece, risultato del rilievo effettuato nel settembre 2011 dal personale del Parco, risulta sbalorditivo il gradiente di velocità con cui si è assottigliato lo spessore dell’apparato durante l’estate 2011, spessore misurato in un metro di media nella parte di ghiacciaio attivo (la parte alta) e di 2,67 m di media nella parte bassa (ghiaccio morto). Oltre a questo impressionante spessore di fusione del ghiaccio, si aggiunga la fusione della neve caduta durante l’inverno 2010-2011, con un equivalente in acqua di 0,778 m misurati con un rilievo stratigrafico della neve effettuato il 17 aprile 2011, sempre da personale del Parco. In breve significa che la neve vecchia, completamente fusa se non per un piccolissimo residuo posto nella parte alta perennemente in ombra (sopra quota 2839), avrebbe potenzialmente prodotto negli anni, uno spessore di circa 0,86 m di ghiaccio. Complessivamente quindi, tra neve vecchia e ghiaccio, la fusione è stata sbalorditiva, sia in termini assoluti riferiti al 2011, sia in termini di confronto con gli anni precedenti. Le cause sono certamente imputabili alle temperature estive molto alte, ma anche alle intense piogge che hanno contribuito a dilavare neve e ghiaccio, provocando una azione meccanica sulla superficie e quindi un lavoro di erosione. C’è da mettere in conto anche l’inerzia dell’apparato, che più è piccolo, più risente delle azioni esterne.
Dal rilievo topografico, eseguito con la stazione totale a distanziometro digitale, messo a confronto coi dati degli anni precedenti, evidenzia una perdita di volume di ghiaccio di circa 140.000 mc; tale volume è importante non solo per la quantità, ma perché quella era una riserva d’acqua dolce immagazzinata migliaia di anni fa, ora trasformata in fase liquida e penetrata nel sistema carsico dolomitico. È un pò come aver perso dei risparmi messi in banca dai nostri “bisnonni”; sono entrati nei flussi misteriosi del sottosuolo e non sono più li come riserva.
Insomma, i segnali che la “febbre” sulle Alpi sta continuamente salendo, sono chiari e i ghiacciai sono buoni “termometri” di questa tendenza. Si tratta ancora una volta, per dirla con una visione antropologica, di “assistere un malato in fase terminale”, leggendo i segnali di sofferenza di questa nostra meravigliosa Terra, messa a dura prova da cambiamenti così repentini. La velocità con cui stanno avvenendo i fenomeni legati al riscaldamento globale è il vero fattore di cui preoccuparsi e l’uomo non può che cercare di limitare i danni e preparasi al cambiamento, consapevole della parte attiva che egli ha avuto in tutto questo.

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